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Dimmidisì il brodo “come fatto in casa”… vantaggi e perplessità del nuovo prodotto arrivato sugli scaffali

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brodo dimmidisiNel banco frigo dei supermercati c’è anche il brodo in bottiglia con una lista di ingredienti breve e semplice. Il nuovo prodotto rientra nel gruppo di prodotti freschi proposta da Dimmidisì, e ha buone probabilità di avvicinarsi al tipico brodo casalingo, proprio come recita lo slogan.

Il prodotto, lanciato sul mercato nel settembre 2012, viene definito dall’azienda un “fresco da fresco”, ad indicare un alimento ottenuto con materie prime fresche per essere venduto fresco.

 

Il  brodo confezionato in bottiglia e collocato nel banco frigorifero, si trova in due versioni: vegetale e di carne con verdure,  ed è in genere collocato accanto agli ortaggi pronti della stessa marca Dimmidisì. La bottiglia contiene tre porzioni di brodo (750 ml) ed è richiudibile; la confezione non ancora aperta, si può conservare 25 giorni, ad una temperatura compresa tra i 2 e i 6 gradi.

 

Siamo di fronte a un alimento già pronto che offre un servizio ai consumatori da utilizzare tale quale, oppure come ingrediente per cucinare. Il risparmio di tempo rispetto alla preparazione di un po’ di brodo con il dado o con un concentrato non è significativo, per cui è logico pensare che il successo sia legato al riconoscimento da parte dei consumatori di una qualità maggiore, oltre all’assenza di glutammato, conservanti e coloranti.

 

brodo dimmidisi

Il prezzo di vendita 1,50 euro per la confezioneda 750 ml non è tanto in assoluto, ma risulta elevato rispetto ad altri preparati che però non sono freschi. È anche vero che il   prodotto sfugge al confronto diretto con altre marche perché al supermercato si colloca nel banco frigorifero che è solitamente lontano rispetto a  quello dei preparati per brodo. La scelta è legata alla necessità di conservarlo in frigorifero ma di fatto si tratta di una spinta in più alla novità.

 

Dal punto di vista nutrizionale, manca l’informazione sulla quantità di sale, elemento importante per questo tipo di alimento.

Valeria Torazza

 

Prodotto Prezzo lancio Ingredienti
Dimmidisì il brodo fresco di verdure 1,50 € per bottiglia richiudibile da 750 ml2,00 €/litro (indicato dall’azienda) Acqua, verdure (patate, carote, zucchine, sedano, porri, cipolle), sale, olio extravergine di oliva, estratto di lievito, doppio concentrato di pomodoro, prezzemolo.
Dimmidisì il brodo fresco di carne e verdure  1,50 € per bottiglia richiudibile da 750 ml 2,€/litro (indicato dall’azienda) Acqua, carne di manzo, verdure (carote, sedano, cipolle), sale, estratto di lievito, doppio concentrato di pomodoro, olio extravergine d’oliva.

 

Informazioni nutrizionali
Dimmidisì Il brodo fresco di verdure Il brodo fresco di carne e verdure
Valori nutrizionali medi per Per 100 ml Per una tazza (250ml) % GDA per tazza Per 100 ml Per una tazza (250 ml) % GDA per tazza
Valore energetico 4 kcal/ 18 kJ 10,0 0,5 7 kcal/  30 kJ 17,5 0,9
Grassi g 0,2 0,5 0,7 0,5 1,3 1,8
Carboidrati g 0,2 0,5 0,2 0,2 0,5 0,2
Proteine g 0,4 1,0 2,0 0,5 1,3 2,5

 

Foto: Dimmidisi.it

© Riproduzione riservata

 


Altroconsumo pubblica la lista dei 40 prodotti “senza zucchero” che invece lo contengono. Richiesta censura all’Antitrust

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altroconsumo-zucchero-40Il 22 gennaio 2013 Altroconsumo ha inviato all’Antitrust un esposto con  l’elenco di 40 prodotti alimentari (marmellate, succhi di frutta, biscotti, omogeneizzati…). Secondo l’associazione di consumatori, e come riportanto anche in un nostro articolo, questi prodotti ingannano gli acquirenti, perchè le etichette e/o le pubblicità lasciano intendere di non contenere zucchero (saccarosio), nascondendo la presenza  di altri sostanze zuccherate come il succo d’uva.

 

Riportiamo anche noi la lista dei prodotti sotto accusa che comprende diversi marchi famosi come:  Almaverde, Balocco, Coop, Colussi, Carrefour, Galbusera, Hero, Hipp, Misura, Mulino Bianco, Paluani, Rigoni, Santal, Valsoia, Zuegg.

Per correttezza va detto che l’Antitrust qualche mese fa ha censurato due aziende per motivi analoghi pretendendo il pagamento di una multa e la modifica delle etichette.

 

La lista dei 40 prodotti 

 

Almaverde Bio, Frutta del bosco Frullato di frutta biologica

Auchan, Biscotti con fiocchi di avena Senza zuccheri

Balocco, Vita Mia

Campiello, Senza zucchero Aggiunto

Carrefour baby Omogeneizzato alla mela

Carrefour, Biscotti secchi Senza zuccheri aggiunti

Carrefour, Croissant con farcitura all’albicocca Senza zuccheri aggiunti

Cerealvit, Bio Corn Flakes

Colussi, Gusto Leggero Senza Zuccheri Aggiunti

Coop, Benesì Fiocchi croccanti con frutta

Crescendo Coop Omogeneizzato Prugna e Mela

DimmidiSì, il Frullato fresco Frutti di bosco

Essezeta, Brioché farcita alla Pesca e Albicocca

Essezeta, Energelli

Galbusera, BuoniCosì

Giusto Giuliani, preparazione di frutta

Hero, Diet Ananas Senza zucchero aggiunto

Hero, Diet Muesly Senza zucchero aggiunto

Hipp Biologico Mela e yogurt

Hipp Biologico Mela golden

Hipp Biologico Pera e yogurt

Hipp Biologico Pesca

Hipp Biologico Prugna e mela

La Finestra sul Cielo, Free Choko

La Finestra sul Cielo, Riccioli Riso & Mais Bio

La Finestra, sul Cielo Biscotti di Kamut e Riso

Materne Fruit and Go Mela e Fragola

Misura, Biscotti allo yogurt Senza zuccheri aggiunti

Misura, Cornetti alla ciliegia Senza zuccheri aggiunti

Mulino Bianco, Storie di frutta con Lampone, Uva e Mirtillo

OnlYou, Cuore di frutta Mela e Lampone

Paluani, I croissant FarciTu

Probios, Composta di albicocche

Rigoni di Asiago, Fiordifrutta Mirtilli neri di bosco Senza zuccheri aggiunti;

Rigoni di Asiago, Fruttosa Frutta al cucchiaio;

Santal 100% frutta Arancia rossa

Valfrutta, Pura frutta frullata Fragola e mirtillo

Valsoia, I frollini alla soia Cereali

Vis, Più frutta Diet Albicocca

Zuegg, Il frullato di frutta Senza zuccheri aggiunti Frutti di bosco

 

Scarica allegato: “Altroconsumo: lettera al garante”

© Riproduzione riservata

 

In Italia milioni di galline sono allevate in gabbie illegali. Le uova costano meno ma il benessere animale conta di più

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cartone uovaCompassion in World Farming, una ONG internazionale che si occupa del benessere degli animali, qualche giorno fa ha accusato l’Italia e la Grecia di non rispettare la legislazione sugli  allevamenti delle galline ovaiole che continuano a vivere  in gabbie minuscole, dichiarate fuorilegge da oltre un anno.

Ma andiamo con ordine.

Il 3 gennaio 2012 è entrato in vigore in Italia il Decreto legislativo 267/2003 che attua la Direttiva comunitaria 74/1999 sul  benessere delle galline ovaiole.  Questo vuol dire che le vecchie batterie (“convenzionali”)  devono essere sostituite con altre più ampie (“modificate” o “arricchite”) o abbandonate del tutto per passare ai sistemi di allevamento a terra.

pulcino latta

Le gabbie “convenzionali” contengono di solito 4 o 5 galline e lo spazio concesso per legge a ogni volatile è di 550 cm2: si tratta, per intenderci, di un’area equiparabile di un foglio di carta A4 (= 620 cm2). Queste gabbie sono completamente spoglie (eccezion fatta per il dispositivo di somministrazione di cibo e acqua) e hanno un pavimento di rete metallica inclinato, dove le galline vivono e depongono le uova. Gli uccelli non hanno a disposizione un nido e non possono spiegare le ali, razzolare, grattarsi le unghie o appollaiarsi.

 

 

galline batteriaLe nuove gabbie “modificate” o “arricchite” hanno uno spazio minimo di 750 cm2 per gallina (di cui 600 cm2 utilizzabili) con un piccolo posatoio, lettiera e un nido e  il numero di animali  può variare. Sebbene lo spazio rispetto alle batterie “convenzionali” sia maggiore, queste gabbie rappresentano pur sempre un sistema di privazione della libertà e una forma di forte restrizione dei loro comportamenti naturali.

 

Più rispettosi del benessere animale sono i sistemi di “allevamento a terra” (le galline sono allevate all’interno di edifici a piano unico o a piani multipli, con una densità per legge nella UE di 9 animali per m2; gli uccelli possono muoversi liberamente negli spazi in comune e hanno nidi, posatoi e lettiera sul suolo) o di allevamento “all’aperto e biologici” (la densità di allevamento è limitata a 6/m2; alle galline non viene “spuntato” il becco e viene concesso uno spazio all’aperto anche di 10 m2 per animale).

 

La Direttiva Ovaiole della UE considera da oltre un anno  fuori legge le gabbie “convenzionali”, ma ammette ancora l’allevamento in quelle “modificate” o “arricchite”, ma ciò nonostante la situazione presenta ancora diverse critictà.

 

gallineDenuncia Annamaria Pisapia, direttrice di Compassion Italia: «Nel nostro paese, stando ai dati in nostro possesso, sono allevati circa 39-40 milioni di galline ovaiole; di queste, il 70% vive ancora in gabbia. Circa 17 milioni di galline, pari al 42,5% del totale, vive nelle gabbie illegali».

 

Antonio Trifilò, esperto del settore, non nutre le stesse certezze: «Nell’ultimo anno le ASL hanno intensificato i controlli per evitare affollamenti fuori norma. Solo dal numero delle multe comminate dai servizi veterinari potremmo capire quante gabbie illegali esistano tuttora. Per il momento sarei più cauto e parlerei di un parziale, lento adeguamento degli allevatori italiani».

 

Questa è anche l’opinione di Stefano Gagliardi, direttore di ASSOAVI (Associazione Nazionale Allevatori e Produttori Avicunicoli): «Gli allevatori italiani si stanno adeguando alla nuova normativa tra grandi sacrifici: ci vogliono tempo e soldi. Un piccolo allevamento di 50mila galline deve investire oltre 350mila euro per rispondere alle nuove direttive. Non è poco, soprattutto perché non godiamo né di aiuti economici da parte dello stato, né di agevolazioni fiscali. Nondimeno, entro giugno 2013, tutti gli allevatori saranno in regola: dopo quella data, non sarà più tollerato alcun allevamento fuori norma e i controlli a tappeto, eseguiti dalle ASL, costituiranno una garanzia per il consumatore».

 

galline allevamento a terra Aggiunge Anna Maldini, presidente di ASSOAVI: «Entro il 2013, il 40% di tutte le uova in commercio in Italia (tutte nostrane giacché non importiamo dall’estero uova da tavola) sarà di allevamento a terra o bio».

 

A conti fatti, non si conosce di preciso la percentuale di gabbie illegali presenti in Italia, ma in ogni caso sono troppe.  Non tutte le notizie sono cattive: ce n’è anche una buona, in compenso.

 

 

Negli ultimi anni la ONG Compassion ha selezionato e premiato alcune grandi aziende alimentari italiane che hanno fatto del benessere animale un valore della loro responsabilità sociale di impresa e sono andate oltre i requisiti di legge, eliminando del tutto le uova da allevamento in gabbia.

 

Tra le aziende premiate, Pavesi (che dal 2011 ha scelto di passare alla fornitura esclusiva di uova da galline allevate a terra), Mulino Bianco ed Emiliane Barilla (utilizza  solo uova da galline allevate a terra), Lazzaroni (utilizza  solo uova di galline allevate all’aperto), Coccodì (già dal 1998 tutta la gamma è preparata  con uova di animali non in gabbia).

uovaPer quanto concerne le catene di ristoranti, vanno segnalati Ristò, Autogrill e Ikea, mentre per la grande distribuzione si qualificano NaturaSì (premio Good Egg 2008), CRAI (premio Good Egg 2011), Coop (premio Good Egg nel 2010), Esselunga e IPER che commercializzano col proprio marchio solo uova di galline non allevate in gabbia.

 

Iprezzi delle uova cambiano notevolmente in relazione alla stato di benessere delle galline. Ecco una tabella di confronto rilevata in un supermercato milanese

- 6 uova  di allevamento biologico € 2,0

- 6 uova di galline allevate all’aperto € 1,80;

- 6 uova di galline allevate a terra € 1,69;

- 6 uova  di galline allevate in gabbia  € 1,00.

 

bambino con gallinaPer quanto riguarda la qualità delle uova, emerge un dato interressante. Nello studio svolto da Margherita Rossi e Luigi Guidobono Cavalchini, del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche dell’Università degli Studi di Milano, si legge: «Il confronto con studi precedenti rafforza la convinzione che per quanto riguarda la qualità dell’uovo quello che conta realmente non è il sistema di allevamento per se, ma piuttosto la capacità di chi lo gestisce di operare le migliori scelte possibili. Si tratta quindi di una questione di affidabilità del produttore».

 

Comprare uova di un tipo di allevamento piuttosto che un altro  non comporta un sostanziale miglioramento sul piano della qualità delle uova. È una scelta etica che riguarda il benessere animale. I consumatori non devono dimenticare che scegliendo uova di un tipo  possono esercitare una considerevole influenza sulle aziende. È vero che le uova allevate in modi diversi non hanno prezzi simili. Ma qual è il prezzo di una vita in gabbia?
 

Anissia Becerra

Capsule per il caffè: i prezzi e tipologie presenti sugli scaffali di Coop, Carrefour e Simply. Differenze sino al 50%

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macchiana caffèIl caffè in capsule rappresenta il passaggio più evoluto di un processo che ha portato nelle case un caffè espresso molto simile a quello del bar. I punti vincenti delle capsule sono due: la possibilità di bere una tazzina di vero espresso e il minimo impegno oltre alla facilità nella preparazione. In sostanza ha vinto un elevato contenuto di servizio. Le capsule sono il risultato di un’evoluzione che è partita dalle macchine da caffè domestiche più tradizionali (la tipica Gaggia con accanto il macinino e un sistema di caricamento uguale a quello del bar).

 

Il sistema prevedeva la macinatura, una giusta quantità e un minimo di abilità nella preparazione, operazioni che rendevano non sempre soddisfacente il risultato finale. Il problemi del dosaggio e di quanto pressare sono stati risolti con l’introduzione delle cialde; queste sono simili al filtro del tè, quindi facili da smaltire nella sezione organica dei rifiuti domestici.

Secondo una chiave di lettura che mette al centro il contenuto di servizio, la cialda aveva ed ha l’inconveniente di sporcare e di gocciolare quando si toglie dal vano della macchina e si butta nella pattumiera. Con le capsule il problema è risolto perchè si introduce nella macchina e, dopo l’utilizzo, cade in un cassetto senza sporcare e senza difficoltà.

 

caffèIl caffè è un piacere, diceva una nota pubblicità, ed è questa una delle ragioni che sta alla base di numerose innovazioni di prodotto. Le capsule che semplificano al massimo la preparazione sono un ottimo risultato ma qual è il prezzo da pagare? Dal punto di vista economico la tazzina preparata in casa con le capsule costa meno rispetto al bar, ma molto di più rispetto a quello preparato con la tradizionale caffettiera moka. Il prezzo delle capsule può risultare  anche quattro volte superiore rispetto alla moka.

 

Dal punto di vista ambientale gran parte delle capsule sono destinate a diventate rifiuti solidi urbani indifferenziati, proprio il tipo di spazzatura che occorre ridurre. Per evitare questo inconveniente alcune aziende propongono capsule ecocompatibili. Tra i prodotti in vendita nei supermercati si trova Caffè Espresso di Vergnano in materiale plastico biodegradabile (Biodé). In alternativa Fiorfiore Coop dà indicazioni per separare i componenti delle capsule, dividendo il fondo del caffè (organico) dalla capsula (plastica).

 

nespressoNespresso (il prodotto leader di mercato), venduto in internet, nelle boutique monomarca e tramite ordine telefonico dà la possibilità di smaltire le capsule usate portandole nei centri raccolta. L’obiettivo per il 2013 è riciclarne il 75% recuperando l’alluminio. Nespresso ha un prezzo unitario medio di 39 centesimi.

Un altro fattore critico del sistema è il legame indissolubile con la macchina. Numerose marche propongono unità che si  possono utilizzare su un solo modello, anche se esistono capsule compatibili, ma occorre prestare attenzione alle indicazioni sulla confezione.

 

caffèPer verificare l’offerta sugli scaffali Il Fatto Alimentare ha realizzato una rilevazione prezzi in tre catene: Simply Market, Coop e Carrefour, che propongono anche una marca propria. In ogni punto vendita ci sono differenti possibilità. Le differenze sono vistose, basta dire che il prodotto più economico costa la metà rispetto al più caro. Un altro dato interessante è che in tutti i supermercati le capsule più care sono quelle di Caffè Espresso Vergnano (compatibili con un buon numero di macchine da espresso, peraltro).

 

Le più economiche sia come prezzo unitario sia come prezzo al kg sono quelle con il marchio privato del supermercato. Quelle Simply costano 22 centesimi l’una e sono compatibili con vari tipi di macchina; Carrefour offre un tipo utilizzabile solo per la macchina Espresso Casa Coffexpress e un secondo modello compatibile al prezzo di 24 centesimi l’una. Infine FiorFiore Coop con ben 9 varianti di miscela vende capsule utilizzabili soltanto con il sistema Espresso Pro a 27 centesimi a pezzo.

 

Valeria Torazza

© Riproduzione riservata

tabella-caffè

* Torino, febbraio 2013

Foto: Photos.com, Nespresso.com

 

Le 15 cose che vorremmo cambiare nelle etichette dei prodotti alimentari. E voi?

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succoNegli ultimi 20 anni le etichette dei prodotti alimentari sono cambiate. Qualche decennio fa era quasi impossibile trovare indicazioni sul valore nutrizionale e sulle calorie di un prodotto: oggi è comune. Che però siano perfette non è vero: molto si può ancora fare per agevolare le  scelte dei consumatori. Ecco 15 punti chiave.

 

1) Un elenco degli ingredienti scritto utilizzando caratteri tipografici leggibili

Su alcune confezioni le diciture sono riportate in numerose lingue con caratteri tipografici minuscoli: il modello “top” è il succo di frutta Bravo della Rauch con un testo tradotto in  24 lingue.  A questo proposito, va segnalato il fatto che a partire dal 14 dicembre 2014, con l’entrata in vigore del regolamento UE 1169/11, ogni etichetta dovrà riportare le informazioni obbligatorie in caratteri di altezza non inferiore a 1,2 mm (riferiti alla x minuscola) e a 0,9 mm per le confezioni la cui superficie sia inferiore a 80 cm².

 

succo-bravo12) La data di scadenza chiara e comprensibile

Chiara significa non incisa con i forellini o presentata come una sequenza di numeri che sembrano quelli del lotto. Quanti consumatori, in effetti, riescono a capire che in etichetta la presenza della sequenza numerica  01.07.14 2 L 2741 11:21 segnala un prodotto in scadenza il primo luglio dell’anno prossimo?

 

3) L’indicazione dell’olio impiegato

Adesso si usa la dicitura  generica “olio vegetale” che si riferisce quasi sempre a olio di palma, di soia, di colza e altri di mediocre qualità che abitualmente non sono venduti al supermercato. Comunque sia, a partire dal dicembre del 2014, dovrà essere specificata la natura degli oli vegetali utilizzati. I produttori che oggi vantano l’assenza di grassi idrogenati dovranno perciò rivelare l’impiego, assai diffuso, di olio di palma che rimane un olio di bassa qualità dal punto di vista nutrizionale, la cui produzione spesso si associa a deforestazioni e rapine delle terre.

 

4) La presenza di “acidi grassi trans”

La ragione è semplice: fanno male alla salute (esiste una correlazione comprovata tra una dieta troppo ricca di acidi grassi trans e insaturi e maggiori rischi di malattie coronariche e ictus). Molti consumatori, purtroppo, non sanno che ci sono né che cosa sono ed è ormai giunto il momento di combattere questa ignoranza. Il reg. UE 1169/11 vieta espressamente la citazione – obbligatoria invece negli Stati Uniti – degli acidi grassi trans in tabella nutrizionale. Perché? La ragione di questo divieto resta un enigma.

 

5)  Fotografie verosimili e di dimensioni accettabili

Le dimensioni delle immagini devono essere tali da lasciare spazio sulla confezione alle informazioni nutrizionali e all’elenco degli ingredienti. Le foto e le notizie facoltative, secondo quanto prescritto dal reg.UE 1169/11, non devono sottrarre spazio all’informazione obbligatoria in etichetta. Quanto alle immagini, alcuni produttori giustificano la difformità tra le foto sulla confezione e l’aspetto reale del prodotto con una “frasetta” scritti in caratteri miscroscopici: “L’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto”. Purtroppo il consumatore, attratto dall’immagine, tende a non leggere la frase di circostanza e spesso a rimanere deluso.

 

olio6) L’indicazione chiara della quantità di sale nella tabella nutrizionale

Sulle etichette spesso si trova la quantità di sodio e non quella del sale. Al consumatore interessa  sapere anche quanto sale è presente nel prodotto e soprattutto nella singola porzione. Il reg. UE 1169/11 che entrerà in vigore nel dicembre 2014 ha sostituito nella tabella nutrizionale il valore “sodio” con l’equivalente espresso in termini di “sale”.

 

7) Indicazioni chiare sulle modalità di conservazione del prodotto e sulla durata dopo l’apertura 

Si tratta di informazioni previste dal nuovo regolamento UE 1169/2011. La durabilità dopo l’apertura della confezione può peraltro venire apposta solo su alcuni prodotti e la sua stima non può mai essere esatta poiché molto dipende dalle condizioni di conservazione del prodotto da parte del consumatore. Si tratta di aspetti importanti e a volte critici soprattutto quando è necessario mantenere la catena del freddo, dal momento che, come già abbiamo scritto, molti frigoriferi domestici non rispettano le temperature richieste.

 

8) L’anno di raccolta delle olive sulle bottiglie di olio extra vergine

Sarebbe interessante avere questa indicazione per capire da quanto tempo il prodotto è stato imbottigliato

 

sale saliera9) Il periodo di stagionatura dei salumi

 

10) L’indicazione chiara e ben visibile dei cibi adatti a vegetariani, vegani e/o alle persone affette da celiachia

Queste indicazioni sono già utilizzate da alcune catene di supermercati sugli alimenti con il loro marchio e da alcune aziende (nel settore dei salumi, ad esempio, alcuni produttori segnalano in etichetta l’assenza di glutine).

 

11) I valori nutrizionali riferiti a 100 g di prodotto e a una porzione verosimile

Il regolamento UE 1169/11 introduce la tabella nutrizionale obbligatoria per la quasi totalità dei prodotti: la tabella dovrà essere tarata su 100 g oppure 100 ml. Su base volontaria potranno essere aggiungi i valori relativi alla porzione.

 

salami12) Indicazioni precise su dove gettare l’imballaggio.

Dobbiamo buttarlo nel contenitore della carta, del vetro, della plastica, in quello della raccolta indifferenziata…? Sarebbe bello se i produttori riuscissero anche a ottimizzare l’impiego dei diversi materiali, riducendone le superfici il più possibile. Il probema è che i comuni non  hanno le stesse modalità di recupero e riciclo dei rifiuti e degli imballaggi.

 

13) Meno additivi, coloranti e conservanti

Alcuni prodotti dovrebbero avere meno ingredienti. Perché per le Pringles, a seconda del gusto, sono preparate con un numero che varia da 9 a 30 ingredienti, mentre le patatine fritte classiche ne hanno solo tre (patate, olio e sale)?

 

spazzatura14) L’abolizione di tutti i giocattoli e i pupazzetti abbinati alle merendine per bambini

La questione è delicata e meriterebbe di essere ulteriormente approfondita, tanto più che molti di questi prodotti sono collocati nei punti vendita ad altezza bimbo, vicino alle casse, e che esistono snack con gadget molto belli che vengono acquistati solo per il gioco. Il problema è che questi gadget sono quasi sempre abbinati a cibi spazzatura e servono solo ad attirare l’attenzione dei bambini.

 

15) Diciture il più possibili chiare e semplici

È lecito chiedersi cosa capisce un consumatore davanti ad una confezione di cereali per la prima colazione se le diciture riportano un elenco con 16 ingredienti, affiancati da 38 valori analitici e 14 percentuali. Forse bisognerebbe fare uno sforzo e semplificare un p0′.

 

Le nostre 15 proposte finiscono qui. E voi che ne pensate? Abbiamo trascurato qualcosa che a vostro giudizio è importante? Ci sono informazioni che vorreste sempre leggere sulle confezioni dei diversi prodotti alimentari? Scriveteci. Parliamone.

 

Roberto La Pira  e Dario Dongo

 

 

 

 

La “ruggine del caffè”: un fungo sta mettendo in ginocchio i coltivatori locali e il mercato mondiale

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ruggine-caffeLa ruggine del caffè, malattia data dal fungo Hemileia vastatrix, sta devastando le colture del Centro e del Sud America, con danni incalcolabili per le popolazioni locali e ripercussioni su tutto il mercato mondiale, dal momento che il caffè proveniente da quelle zone rappresenta il 14% di tutto quello prodotto al mondo.

L’epidemia è iniziata mesi fa, senza apparenti cause scatenanti, ma un ricercatore dell’Università del Michigan John Vandermeer, che da 15 anni lavora con gli agricoltori del Centro America e del Chiapas, forse ha trovato una causa, che lui stesso sintetizza così: «aver trattato il caffè come se fosse mais, per massimizzare i raccolti».

 

Lo studioso si occupa dell’ecosistema delle piantagioni e nel tempo ha elaborato schemi piuttosto dettagliati che comprendono, oltre alle piante, i funghi, gli insetti, gli uccelli e i pipistrelli. Nell’ultimo anno, si è concentrato sulla devastazione indotta dalla ruggine nelle piantagioni di riferimento, trovando che almeno il 60% delle piante ha perso l’80% delle foglie, morte in seguito a un attacco della ruggine, che impedisce loro di fare la fotosintesi, che il 30% delle piante non ha più neppure una foglia e che circa il 10% è morto. Lo stesso fenomeno, sempre secondo Vandermeer, è accaduto in Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Nicaragua e Messico, come hanno riferito gli agricoltori con cui il ricercatore è in contatto, commentando disperati che si tratta della peggiore epidemia mai vista da quelle parti.

 

caffe Analizzando quindi la situazione nel suo complesso, il ricercatore ritiene di aver trovato almeno una delle cause del disastro: il graduale ma inesorabile passaggio dalle piantagioni tradizionali, in ombra, a quelle più redditizie (all’apparenza), al sole.

Per secoli la coltivazione del caffè è stata fatta crescendo gli arbusti sotto una coltre di alberi, e quindi all’ombra, ma qualche anno fa si è pensato che una coltura in un terreno soleggiato avrebbe potuto assicurare una crescita più rapida e una gestione più semplice. In realtà l’esposizione delle piante al sole ha sconvolto l’ecosistema su cui si basa la crescita della pianta, facendo diminuire in modo drastico il numero di insetti, uccelli e funghi benefici. Tra questi ultimi, in particolare, c’è quello cosiddetto dell’alone bianco, che combatte efficacemente gli insetti nocivi e la ruggine ma che ha bisogno di ombra per svilupparsi, e che non a caso è quasi del tutto sparito dalle coltivazioni al sole. Il mutamento climatico e l’impoverimento progressivo dei terreni hanno fatto il resto.

 

caffe bar Secondo Vandermeer «questo è ciò che accade quando si tratta il caffè come se fosse mais. Il delicato equilibrio che sostiene le piantagioni si è lentamente alterato fino ad arrivare a un punto di rottura, nel quale la ruggine – detta anche la roya – ha preso il sopravvento. Può darsi che la roya si autolimiti e che, dopo l’esplosione di quest’anno, torni a livelli normali, ma può anche accadere che resti una piaga endemica di questa regione, con gravissime conseguenze per i coltivatori, almeno fino a quando non sarà invertita la tendenza a privilegiare le coltivazioni al sole».

 

La ruggine del caffè è stata segnalata per la prima volta in Africa, vicino al lago Vittoria, nel 1861 e successivamente in Sri Lanka, nel 1867. Da lì si è diffusa in Asia e nella fascia centro-meridionale dell’Africa; nell’emisfero occidentale è arrivata nel 1970, anno in cui è stata segnalata a Bahia, in Brasile. Oggi è presente in tutti i paesi coltivatori di caffè, ma finora non aveva mai causato crisi così gravi. L’infezione colpisce principalmente le foglie, ma anche i frutti giovani e i germogli; le spore si diffondono per via aerea, ed è quindi quasi impossibile contenerne la diffusione.

 

Agnese Codignola

© Riproduzione riservata

Foto: Photos.com, Ns.umich.edu

 

Stop al consumo di tonno rosso fresco servito al ristorante. Solo così si può evitare l’estinzione della specie

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tonnoI consumatori hanno il coltello dalla parte del manico: più di ogni attività di controllo, per tutelare il tonno rosso (Thunnus thynnus, detto anche pinna blu) sono fondamentali le scelte compiute nei mercati e nei ristoranti di lusso. Per questo sushi, sashimi, tartare e tagliate della pregiata specie sono pietanze da rispedire al mittente. «Per una ragione etica dovremmo sempre chiedere la natura e l’origine del prodotto: così potremo scegliere se accettarlo o meno», spiega Giuseppe Notarbartolo Di Sciara, docente di biologia ed ecologia marina all’università di Milano. «Di fronte a chi ci offre un piatto di tonno rosso, non dovremmo porci troppi dubbi: va sempre rifiutato».

 

La specie, nonostante un lieve miglioramento rispetto agli scorsi anni, non vive una condizione ottimale. Il business fiorito attorno ai suoi piatti ha inferto un colpo quasi letale. Basti pensare che una multinazionale come la Mitsubishi detiene il controllo sul 60% del pescato nell’Atlantico e che nel 2010 in Giappone, dove finisce il 90% del tonno rosso che poi entra in commercio, è stato venduto l’esemplare più caro di sempre: 177mila dollari per un pesce di 233 chilogrammi, circa 760 dollari al chilo.

 

sushiDi fronte a un tale volume di affari, i piani di gestione adottati dall’International commission for the conservation of the Atlantic Tunas (Iccat) non hanno tutelato i pregiati tonni pinna blu, arrivando addirittura nel 2010 ad essere accusato dall’Economist di cospirazione internazionale per razziare tutto il tonno rosso in circolazione. L’istantanea del momento, però, è meno negativa rispetto alle precedenti stagioni. La presa d’atto ha convinto l’Iccat a ritoccare di poco all’insù la quantità totale massima che è possibile pescare nelle acque mondiali nel 2013: da 12900 a 13500 tonnellate. «La situazione è migliorata da quando l’Iccat ha dato ascolto al proprio comitato scientifico e all’Unione Europea», precisa Marco Costantini, responsabile del programma mare del Wwf Italia. «Però il timore che si possa avere l’estinzione della specie rimane fondato. Servono regole precise e una costante attività di controllo per evitare la pesca illegale».

 

pesca barcaIl nostro Paese, in realtà, è tra i più attenti alla tutela. Nel 2010 il Ministero delle Politiche Agricole vietò la pesca con una moratoria e da quel momento in poi la flotta volante (d’impatto maggiore rispetto alle due tonnare fisse ancora in funzione) è stata drasticamente ridotta: da 60 a 13, fino a 9 unità che quest’anno potranno pescare al massimo 1950 tonnellate. Ma l’affare, nonostante le contromisure, è ancora ghiotto e i traffici illegali per portare il tonno in Giappone sono frequenti (vedi Report Wwf). Da qui il sospetto che il tetto indicato dall’Iccat sia difficile da controllare.

 

Pesca illegale e pesca sportiva – per cui c’è il limite di un esemplare di massimo 30 chili per natante – rappresentano le variabili su cui tenere le luci puntate. Gli allevamenti, veri impianti di stoccaggio deputati all’ingrasso della specie, hanno inferto un altro colpo all’ecologia marina. Adesso il tonno rosso si può acquistare in ogni stagione, a un prezzo inferiore rispetto a quello del pescato. È per questo che nei ristoranti Nobu lo si trova nel menu, seppur con l’avviso: “State mangiando un pesce in via di estinzione”. Una contromisura che non favorisce la presa di coscienza da parte dei clienti. I giapponesi si difendono dietro lo scudo della cultura alimentare. Nulla, però, che giustifichi la messa a rischio del tonno rosso.

 

Fabio Di Todaro

© Riproduzione riservata

Foto: Photos.com

Il sacchetto dei biscotti Macine Mulino Bianco è riciclabile? La Barilla dà indicazioni discordanti, cosa fare?

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macine-etichettaHo acquistato una confezione da 450g e un’altra da 1.000g di biscotti Macine del Mulino Bianco. Quella da 450g, per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti, riporta “incarto C/PAP81 non ancora riciclabile” (infatti questo tipo di imballi finisce purtroppo dritto dritto negli inceneritori), mentre la confezione da 1.000g riporta “incarto C/PAP81 raccolta carta”. Pur non  essendo un’esperta, credo che questo sia un grave errore visto che C/PAP81 non è carta! Quindi: il sacchetto si può riciclare?

Tiziana

 

La domanda posta dalla lettrice attenta, ha evidenziato un’incongruità di indicazioni per lo smaltimento delle confezioni che causa confusione al momento di buttare via i sacchetti.

 

Nel primo caso (sulla sinistra nella foto) le parole sul disegno colorato di verde dicono: INCARTO RACCOLTA CARTA, e questa frase non lascia spazio a dubbi sul destino della confezione.

 

Nell’altro sacchetto (sulla destra nella foto) sempre di biscotti Macine le parole sul disegno indicano: INCARTO NON ANCORA RICICLABILE RACCOLTA INDIFFERENZIATA, e anche questa frase non lascia spazio a dubbi.

Abbiamo chiesto a Barilla un chiarimento per ben due volte ma nonostante le promesse e i solleciti, a distanza di tre settimane non sono arrivate notizie. È un atteggiamento poco simpatico per un’azienda che ha anche un numero verde per i quesiti dei consumatori e una pagina dedicata a questi aspetti sul proprio un sito internet (vedi foto sotto).

 

macine-etichetta3In  assenza di segnali da Parma abbiamo consultato un esperto che non ha avuto molti dubbi. Siamo di fronte a un tipologia di packaging accoppiato la cui sigla tecnica è C/PAP81, ovvero una confezione formata dall’abbinamento di diversi strati di carta e cartone e plastica incollati tra di loro, difficilmente riciclabile quindi perchè composti da  materiali differenti. È ragionevole dubitare che nella confezione con il bollino verde sia possibile dividere in modo facile ed efficace gli strati di carta e plastica.

 

È vero che in alcune zone questo tipo di imballaggi può finire nella plastica, ma si tratta di casi isolati e comunque le modalità variano da comune a comune.  Probabilmente si tratta di un errore, l’indicazione giusta è quella secondo cui il packaging deve finire nell’indifferenziata.

Insomma il sacchetto di biscotti Macine Mulino Bianco Barilla buttiamolo nel sacco nero indifferenziato per non sbagliare.

mulinobianco-riciclo

 

 

Roberto La Pira

© Riproduzione riservata

Foto: Mulinobianco.it


Pasta senza glutine Garofalo: il motto recita “Il Gusto è un diritto”, un po’ caro però

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garofalo logoLa pasta  Garofalo ha lanciato una nuova linea di prodotti senza glutine durante  il Salone del Gusto di Torino. L’obiettivo dell’azienda è unire la funzionalità di un prodotto dietetico per celiaci a un alimento che, seppur diverso da quello tradizionale, incontri il gusto di tutti. Per la precisione l’azienda di Gragnano (Napoli), produce pasta di semola di qualità che sugli scaffali dei supermercati e ipermercati viene venduta a un prezzo elevato, e rientra così tra i cosiddetti premium price (alta gamma).

 

Pegarofalo-glutiner l’azienda avventurarsi nel mondo degli alimenti dietetici per celiaci è una sorta di sfida proprio perché il prodotto non vuole avere connotazioni negative a livello organolettico. L’etichetta riporta una dicitura piuttosto lunga. Sul sacchetto di cellophane campeggia il logo aziendale  affiancata dalla dicitura “Il Gusto è un diritto Mais, Quinoa, Riso e Fibre selezionate per voi Pasta dietetica senza glutine”.

 

L’originalità della nuova pasta risiede anche nel rapporto instaurato con i consumatori attraverso i nuovi mezzi di comunicazione in internet. Per il lancio sono state coinvolte alcune food blogger, che hanno testato il prodotto e creato alcune ricette. Attualmente la pagina web dedicata alla pasta gluten free ( senza glutine) del Pastificio è uno spazio di discussione; nelle risposte date ai consumatori si legge l’intenzione di migliorare il prodotto. Tra le informazioni in rete c’è anche una nota  sulla presenza tra gli ingredienti dell’E471 (mono e digliceridi degli acidi grassi alimentari). Si tratta di uno stabilizzante di origine naturale derivato dall’olio di palma che serve per aggregare e per mantenere la compattezza tra le fibre presenti nei cereali.

 

pasta Nel gruppo di cereali che compongono questa pasta la parte del leone la fa il mais, seguito dal riso e in minima parte dalla quinoa. A quest’ultima viene dedicata particolare attenzione da parte dei naturalisti, soprattutto quando si parla di diete vegetariane e vegane. La quinoa è un cereale originario della regione andina del Perù di facile coltivazione, ricco di sali minerali, proteine, vitamine e fibre, ovviamente privo di glutine.

Il prezzo della Garofalo senza glutine è grosso modo in linea con quello delle altre paste destinate ai celiaci, mentre costa più del doppio rispetto alla pasta di semola tradizionale. Siamo di fronte a una sperimentazione riservata a pochi o a qualche occasione speciale.

 

Valeria Torazza

© Riproduzione riservata

Prodotto Prezzo Ingredienti
GarofaloIl Gusto è un diritto – Mais, Quinoa, Riso e Fibre selezionate per voiPasta dietetica senza glutineCellophane 500g 2,90 € confezione/ 5,80€ al kg(prezzo consigliato) Mais 70%, farina di riso 18%, quinoa 3%, amido di mais, stabilizzante E471.

 

INFORMAZIONI NUTRIZIONALI
Valori nutrizionali medi per   Per 100 g % GDA
Valore energetico 353 kcal/ 1493 kJ 17,7
Grassi g 1,3 1,9
di cui saturi g 0,2 1,0
Carboidrati g 74,9 27,7
di cui zuccheri g 2,7 3,0
Proteine g 6,1 12,2
Fibre alimentari g 7,0 28,0
Sodio g 0,07 2,9

Foto: Photos.com

 

 

Carne di cavallo, basta con le storielle di Coldiretti sull’etichetta di origine. Lo scandalo è una truffa commerciale. Lo dice anche il commissario UE Tonio Borg

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lasagneLa vicenda delle lasagne, dei tortellini e delle polpette Ikea contenenti carne di cavallo anziché carne bovina ha coinvolto 24 paesi europei e i prodotti ritirati dal mercato sono quasi 200. Sui giornali sono apparsi centinaia di articoli molti dei quali richiamo la tesi di Coldiretti sull’importanza dell’etichetta di origine per la carne di cavallo, lasciando intendere che con questa indicazione gli scandali alimentari sarebbero di meno, perché il consumatore potrebbe distinguere il prodotto made in Italy considerato sempre il migliore.

 

Il 28 febbraio nella trasmissione Codice a barre di Rai 3 si è discusso di carne di cavallo. Il Commissario Europeo alla salute dei consumatori, il maltese Tonio Borg, ha bocciato la teoria di Coldiretti sulla mancanza dell’etichetta di origine della carne di cavallo, come elemento che non permette di identificare i colpevoli. Lo scandalo non è dovuto alla carenza di tracciabilità come sostiene Coldiretti, ma alle malefatte di chi ha trasformato la carne di cavallo in carne bovina.

 

carne-cavalloIl commissario ha precisato che dopo la scoperta della frode proprio grazie alla tracciabilità obbligatoria adottata nell’UE in poche ore si è risaliti all’origine.

Purtroppo la cattiva informazione promossa sullo scandalo ha prodotto come al solito errate convinzioni. Ecco le più diffuse.

- I cavalli “cattivi” sono quelli romeni e polacchi (non è vero, non conosciamo la situazione in Italia dove si macella il maggior numero di cavalli in Europa – iniziano in questi giorni i controlli nei macelli sul fenilbutazone.

- Gran parte dei prodotti ritirati riguarda l’estero perchè si fanno molte triangolazioni commerciali (non è vero i ritiri sono iniziati anche in Italia quando il Ministero ha cominciato a fare le analisi sul Dna).

- I cavalli macellati in modo fraudolento e provenienti da circuito delle gare sono stranieri (non è vero un’indagine del Corpo forestale italiano nel 2010 ha scoperto un giro di 700 passaporti falsi e un commercio di circa 20 milioni di euro di carne di cavalli illegale)

- La carne di cavallo a fine carriera costa meno di quella bovina (non è vero, il confronto va fatto con la carne di vacca utilizzata per fare i ripieni di lasagne e tortellini e questa carne in Italia non si vende al dettaglio tanto è di qualità mediocre e costa pochissimo).

 

laboratorioIl problema reale di questa storia è l’assenza di controlli preventivi. In Europa praticamente nessuna azienda e nessuna istituzione faceva analisi sulla specie equina. La scoperta della frode in Irlanda è stata del casuale. Anche a Torino quando due anni fa l’Istituto zooprofilattico sperimentale Piemonte ha scoperto una frode contraria (utilizzo di carne bovina venduta come carne di cavallo) si è trattato di un evento del tutto casuale e non di un intervento programmato.

 

Siamo d’accordo con Coldiretti quando si consiglia di consumare made in Italy  e di privilegiare i prodotti a filiera corta ma fare discorsi astratti sulla qualità superiore dei prodotti italiani non ha senso. Ogni anno le frodi dei prodotti italiani esportati in altri Paesi segnalate dal Sistema di allerta europeo sono decine e quelli rilevati dai controlli istituzionali centinaia.

Sull’indicazione obbligatoria dell’origine degli ingredienti come elemento utile per i consumatori possiamo essere d’accordo, ma solo per gli ingredienti principali (è la medesima filosofia dell’Unione europea tanto che già lo si fa per una decina di categorie).

 

etichetta origine

Indicazioni sull’origine degli ingredienti in un piatto elaborato come una crocchetta di pollo farcita

Se però, come sostiene Coldiretti, dovesse diventare obbligatorio indicare l’origine di tutti gli ingredienti, in un prodotto come le lasagne, l’etichetta sarebbe molto complessa.

Si inizierebbe con la Cina per il pomodoro, poi c’è la Malesia per l’olio di palma, la Spagna per l’aglio, l’Italia per la carne di mucca, la Francia per la farina, la Germania per il latte, l’Irlanda per il burro, l’Australia per l’olio di girasole…

 

Adesso vi proponiamo un gioco sull’indicazione obbligatoria dell’origine prendendo come esempio la pasta Barilla che da domani potrebbe scrivere nell’elenco degli ingredienti la frase  “Grano proveniente dalla Sicilia e dagli Stati Uniti”. Cosa verrebbe in mente? Che Barilla non vuole usare grano italiano? Che Barilla compra grano americano perché costa meno? Che Barilla ha intenzione di ampliare le  vendite sul mercato USA? Che compra il grano Usa perché in Italia non basta? Che il grano Usa ha una qualità del tutto simile a quello italiano? Le ultime due risposte sono quelle giuste, ma difficilmente il consumatore dopo il lavaggio del cervello fatto sulla qualità del made in Italy, accetterebbe questa realtà in modo sereno.

 

Roberto La Pira

©Riproduzione riservata

Foto: Photos.com

Kinder Ferrero: l’ovetto di Pasqua batte tutti i record e viene venduto a 94 euro al kg, + 14% rispetto all’anno scorso

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   uova 005 94 euro al kg non è il prezzo dell’aragosta, ma quello dell’ovetto Kinder Ferrero da 41 g, venduto in tutti i supermercati più o meno alla stessa cifra. Una cosa è certa l’ovetto di Pasqua preferito dai bambini rientra nella classifica dei prodotti alimentari più cari preceduto da zafferano, tartufo, caviale. Molte mamme e papà quando comprano  non guardano attentamente il cartellino che indica 3,85 euro e  nemmeno il peso che corrisponde al  doppio rispetto all’ovetto  classico venduto nei negozi tutto l’anno,  ma il prezzo è davvero  esagerato e ingiustificato.

Certo le sorprese Ferrero più belle,  ma è altrettanto vero che l’ovetto Kinder non è tutto di cioccolato come gli altri. La scritta sull’etichetta  “Uovo dolce con sorpresa ricoperto di puro cioccolato”,  indica un prodotto  “ibrido”, ottenuto abbinando un guscio bianco preparato con grassi vegetali non eccellenti, diversi dal burro di cacao, a un secondo guscio di cioccolato al latte.

 

C’è un altro elemento da considerare il prezzo del piccolo Kinder da 41 g,  non solo risulta il più caro tra tutte le uova vendute al supermercato, ma è anche aumentato del 14% rispetto all’anno scorso. Ci piacerebbe sapere da Ferrero quali sono le motivazioni.

Tutta la gamma Kinder Gransorpresa Ferrero ha prezzi sbalorditivi oscillanti da 55 a a 63 €/kg. Per comprendere il divario basta dire che le uova Lindt da 300 g,  considerate  di eccellente qualità,  sono vendute a 68 euro/kg,  le altre come Bauli, Zaini, Nestlè,  Pernigotti….oscillano da 32 a 46 €/kg.

 

Ma in periodi di crisi economica come quelli attuali  con meno di 4 euro si possono comprare  uova di Pasqua da 210 g fatte di vero cioccolato, anche se la marca risula poco  nota, come abbiamo visto nei supermercati Esselunga.

 

uova 001Il prezzo delle uova in generale può sembrare elevato, perchè si fa un confronto improprio con le tavolette che costano 3-4 volte meno.  Gli elementi da considerare per capire perchè lievita  il listino sono diversi: l’imballo vistoso, le spese di produzione e spedizione, le dimensioni, la sorpresa e il ricarico del supermercato che deve predisporre uno spazio molto ampio.

In ogni caso Pasqua è ancora lontana e  basta aspettare 15 giorni per trovare sconti interessanti.

 

Roberto La Pira

Riproduzione riservata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indicare la quantità di potassio sulle etichette dei prodotti alimentari: la proposta all’esame della Fda americana

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etichetta Le etichette di prodotti alimentari sono da tempo  sotto osservazione. Diciture incomplete o assenti, in certi casi scorrette o poco veritiere hanno stimolato la riflessione critica dell’opinione pubblica e dei legislatori sia sulle carenze che sulle potenzialità di uno strumento capace di raggiungere tutti i consumatori e potenzialmente in grado di aiutarli a compiere scelte più razionali e consapevoli.

 

Tra i grandi protagonisti del dibattito vi è da sempre il sale, o meglio il suo componente più importante, il sodio, responsabile, se assunto in eccesso, dell’innalzamento della pressione sanguigna. Poiché, stando ai dati forniti da diversi studi, gran parte della popolazione mondiale ne consuma davvero troppo, l’indicazione della concentrazione di sodio è ormai divenuta obbligatoria in quasi tutti i paesi.

 

Lo stesso non si può dire per un altro elemento molto presente, potenzialmente benefico ma per alcune persone pericoloso: il potassio. Quest’ultimo può rimpiazzare il sodio in alcuni sali medicati e si trova in molti alimenti, e poiché sostituisce il sodio senza avere effetti pressori, può contribuire a tenere sotto controllo la pressione e ad abbassare il rischio di malattie cardiovascolari e diabete.

 

potassioTuttavia, nel caso di alcune patologie come quelle renali la sua concentrazione deve necessariamente restare molto bassa: a questi malati viene consigliata sovente una dieta a basso contenuto di potassio. Ebbene, queste persone raramente riescono a rispettare le indicazioni mediche perché il più delle volte non hanno la possibilità di sapere quanto potassio sia contenuto in un certo alimento.

 

Partendo da questo presupposto, Susan Kansagra, membro del New York City Department of Health and Mental Hygiene, ha condotto un’indagine su oltre 6.500 prodotti appartenenti a 61 categorie e ha scoperto che solo 500 di essi contenevano l’indicazione del contenuto di potassio.

 

banane corn flakes fragole Come sottolinea il suo lavoro, pubblicato su JAMA Internal Medicine, la metà dei casi concerneva cinque categorie: succhi vegetali, patate cucinate in vario modo, cereali per la prima colazione, pancakes e condimenti. Lo studio non evidenzia comportamenti illeciti poiché negli Stati Uniti, come in Italia, l’indicazione del potassio è facoltativa (tranne nei casi in cui il prodotto vanti in etichetta o nella pubblicità uno specifico beneficio legato al potassio).

 

Susan Kansagra ha già presentato alla Food and Drug Administration la richiesta di introdurre l’obbligo dell’indicazione della quantità di potassio in etichetta. La motivazione la spiega lei stessa: «Le diete ad alto tenore di potassio aiutano a far diminuire il sodio e in genere mantenere un buon rapporto tra i due elementi è importante per la salute. Tuttavia, secondo molti studi la popolazione mondiale assume poco potassio e non arriva ai livelli minimi raccomandati». Per aumentare la quantità di potassio bisognerebbe consumare più frutta e verdura fresche, pesce, carne, soia e latticini.

 

Un discorso analogo ma contrario vale per i cittadini che hanno un deficit renale anche lieve e devono stare attenti alla quantità di potassio ingerita. Un’altra cautela riguarda le possibili interazioni tra alcuni farmaci (per esempio tra gli anticoagulanti coma la warfarina) e il potassio.

Insomma, tra le molte indicazioni che dovrebbero essere inserite nelle etichette nutrizionali quella relativa al potassio non è affatto da trascurare.

 

Agnese Codignola

 

© Riproduzione riservata

Foto: Photos.com

Salsa ketchup: i prezzi variano da 1,7 a 15 euro e anche gli ingredienti sono diversi. La guida all’acquisto del blogger Günther Karl Fuchs

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donna ketchup patatine fritteCosa c’è davvero nel ketchup, la salsa agrodolce a base di pomodoro, amata dagli appassionati di fast food e non solo?

Nel suo blog “Papille Vagabonde”, Günther Karl Fuchs prova a fare il punto su una salsa che la tradizione vorrebbe di origini orientali, mentre è parente stretta della salsa rossa agrodolce proposta dalla tradizione soprattutto col bollito – pensiamo al bagnet ross piemontese – e presente da oltre un secolo sul mercato come prodotto industriale, grazie alla Rubra realizzata da Cirio.

 

Nondimeno, è con l’avvento dei fast-food che prende piede il ketchup in versione americana, prodotto da grandi marchi come Heinz o Kraft e da private label come Carrefour, Unes, o Coop, senza  dimenticare le aziende e le catene di fast food come McDonald’s.

 

Chiedersi se il ketchup faccia bene o male non ha molto senso: si tratta di una salsa che nell’80% dei casi viene abbinata alle patatine fritte. «Nei fast food serve a consumare più patatine e a far venire sete, quindi a ordinare più bibite», spiega Fuchs.

ketchupDi solito è utilizzato a piccole dosi: molte confezioni indicano una porzione di 15 g e si tratta  di un prodotto che induce a consumare alimenti ricchi di sodio, come le patatine fritte, e ricchi di zuccheri, come le bibite gassate.

 

La salsa contiene sodio: fino a 1,2 g per 100 g, la metà della dose giornaliera indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ha però un basso apporto calorico: da 80 a 130 calorie circa per 100 g, a seconda della marca. Oggi esistono anche versioni senza zucchero, dolcificate con stevia o saccarina, ma la differenza di apporto calorico è minima, come quella che separa le numerose versioni più o meno piccanti o arricchite con diversi aromi.

 

Il blogger di “Papille Vagabonde” suggerisce  di fare attenzione soprattutto alla qualità degli ingredienti. Alla base di ogni ricetta di ketchup ci sono  pomodoro (in  genere concentrato), aceto, sale, zucchero e aromi vari. Meglio  scegliere prodotti che contengono aceti pregiati come quelli di vino o di mele e non aceto di alcol, e addizionati con zucchero e non sciroppo di glucosio-fruttosio (presente, ad esempio, nella salsa McDonald’s e Kraft Mato Mato).

ketchup muttiDa preferire anche i prodotti non arricchiti con amidi o addensanti.salsa rubra cirio

 

Quanto alla provenienza del pomodoro, l’ingrediente principale di  Rubra Cirio e Mutti è il pomodoro italiano. Cirio, in particolare, attesta di utilizzare solo pomodori provenienti da agricoltura  integrata. Nella maggioranza dei restanti casi, invece, non vengono fornite informazioni sulla provenienza e in alcuni casi mancano le informazioni nutrizionali.

 

 

Anche il gusto vuole la sua parte: secondo l’analisi di “Papille Vagabonde”, le salse migliori in termini di sapore e qualità sono due: il classico Ketchup Heinz e il Ketchup Bio Classico Natura è Piacere di Tuttovo, una salsa di produzione italiana presente in diverse versioni (classica, con aceto balsamico, piccante) che si qualifica come un prodotto di  fascia alta e con una piccola aggiunta di aglio per variare la ricetta originale.

Heinz Ketchup Bottles

 

Ketchup Balsamico Natura è Piacere

Quanto ai prezzi ci si trova di fronte a considerevoli variazioni, come Il Fatto Alimentare aveva già scritto un anno fa  (1,6 €/kg per la salsa più economica sino a 6,8 per quella di McDonald’s).  I prezzi riportati da “Papille Vagabonde”  rilevati poche settimane fa confermano questo andamento: si parte da 1,77  €/kg per la salsa più economica firmata Fior di pomodoro,  si arriva ai 6,36 €/kg di McDonald’s e si toccano i 15 €/kg per Tuttovo (vedi tabella).

 

Per chi può, vuole e soprattutto ha tempo, il consiglio migliore è quello di preparare la salsa in casa: i consigli su come farla si trovano facilmente in rete e anche “Papille Vagabonde” fa qualche proposta .

 

Paola Emilia Cicerone

 

© Riproduzione riservata

Foto: Photos.com, Heinz, Natura è piacere

 Tabelle  sulla composizione  nutrizionale di alcune salse ketchup  tratte dal blog “Papille Vagabonde”

 

ketchup+tabella+nutrizionale+coop+carrefour+unes+billa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ketchup+sugar+free+tabella+nutrizionale+calve+kraft+fior+di+pomodoro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ketchup+tabella+nutrizionale+heinz+mutti+calve+rubla+tuttovo

 

Riso Scotti, Coop e Simply: un solo produttore per tre marchi. Cambia però il prezzo e forse anche il chicco

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risoIl riso Arborio tra le varietà italiane è quella che ha i chicchi più grandi ed è considerato il re dei risotti, ne esistono anche altre tipologie come il Roma e il Carnaroli un po’ meno richieste. Nei supermercati le due marche leader (Scotti e Riso Gallo) si confrontano con molte confezioni che sull’etichetta riportano la marche del distributore (private label) ormai arrivate a coprire il 38% del volume.

 

La confezione utilizzata per il riso è solitamente il sacchetto sottovuoto in plastica all’interno di una scatola di cartone anche se c’è chi utilizza solo l’involucro trasparente. Il prodotto di marca esposto sugli scaffali non presenta molte differenze con quello a marchio del supermercato, per cui il consumatore sceglie essenzialmente in base alla marca, al prezzo, alla tipologia, al tempo di cottura e alla tenuta. Abbiamo confrontato il Riso Scotti Arborio, dell’azienda leader di mercato, con l’omologo prodotto a marchio Coop e quello firmato da Simply.

 

riso scottiScotti confeziona anche per Coop Nord Ovest e Unicoop Firenze nello stabilimento di Pavia in Via Angelo Scotti oltre che per una decina di insegne come: Simply, Despar, C3, Eurospin, Penny Market, Selex, Sma, Auchan, Billa Italia, Metro, Sun, Crai, Finiper, Il Gigante, Lidl Italia, Pam ecc. Il lungo elenco rappresenta un uteriore esempio di come per alcune grandi aziende leader sia normale produrre anche per le marche dei supermercati.

 

Confrontando i tre prodotti si nota che le confezioni di Coop e Scotti sono molto simili (scatola di cartone con all’interno il sacchetto di riso sottovuoto), mentre il riso superfino Simply (prodotto sempre dalla Scotti nello stesso stabilimento) utilizza solo il sacchetto di plastica sottovuoto.

 

Riso coopMa la similitudine è solo apparente perchè osservando le tabelle nutrizionali si evidenziano differenze interessanti relative alla composizione. Coop ha una percentuale di proteine maggiore (8,1g su 100 rispetto ai 6,8 di Scotti e Simply). Questa differenza può essere legata alla zona d’origine del riso che, come sottolinea Scotti, “è tutto di provenienza italiana e frutto di una selezione della materia prima”. Un’altra diversità merceologica riguarda il tempo di cottura 16-18 minuti per Coop e Scotti e 14-15 per Simply.

 

Riuscire a capire la differenza tra il riso Scotti e quello prodotto per le oltre 15 catene di supermercati non è banale. In genere ogni catena adotta un “capitolato” che può contemplare caratteristiche merceologiche e anche formati specifici (come nel caso di Simply) che raramente vengono diffuse alla stampa.

 

riso simplyOttenere informazioni sui capitolati è difficile. Abbiamo contattato Coop per avere qualche chiarimento sul Riso Arborio e ci è stato risposto che “relativamente alla qualità merceologica (percentuale massima di grani spuntati, grani striati, impurità varietali ecc.) sono state fissate tolleranze inferiori a quanto stabilito dalla legge”. Di sicuro queste caratteristiche del riso possono influire sulla qualità della cottura.

 

Da parte sua Riso Scotti dice che “per tutti i parametri (caratteristiche chimico-fisiche, microbiologiche, merceologiche) i prodotti a marchio Scotti hanno limiti massimi più restrittivi rispetto ai prodotti delle marche dei supermercati, oltre che rispetto ai limiti definiti dalla legislazione italiana”. L’azienda precisa che “tutte le rotture derivanti dal processo di lavorazione per il marchio Scotti vengono utilizzate per altri prodotti a base di riso”.

 

Il prezzo più elevato di Riso Scotti Arborio (il 30% in più rispetto a Coop e Simply) è in parte giustificato. La differenza è consistente anche se bisogna ricordare che i prodotti a marchio dei supermercati sostengono minime spese di marketing e pubblicità.

 

Claudio Troiani

 

riso scottiRiso Arborio Scotti da 1 Kg
Valori nutrizionali per 100g
Valore energetico                   359 Kcal
                                         1.525 Kj
Proteine                                  6,8g
Carboidrati                             79,8g
Grassi                                     1,4g
Tempo di cottura in minuti       16-18
Prezzo (euro/Kg)                    3,14

 

Riso coopRiso Arborio Coop da 1 Kg
Valori nutrizionali per 100g
Valore energetico                  352 Kcal
                                        1.456 Kj
Proteine                                  8,1g
Carboidrati                             76,8g
di cui zuccheri                       0,2g
Grassi                                     1,2g
di cui saturi                            0,2g
Fibre alimentari                      1,0g
Sodio                                       0,0g
Tempo di cottura in minuti       16-18
Prezzo (euro/Kg)                    2,30

 

riso simplyRiso Arborio Simply da 1 Kg
Valori nutrizionali per 100g
Valore energetico                  344 Kcal
                                        1.459 Kj
Proteine                                  6,8g
Carboidrati                             77,5g
di cui zuccheri                        0,3g
Grassi                                     0,7g
di cui saturi                             0,2g
Fibre alimentari                      1,0g
Sodio                                       0,0g
Equivalente in sale                  0,0g
Tempo di cottura in minuti       14-15
Prezzo (euro/Kg)                    2,34

 

Prezzi rilevati a gennaio/febbraio 2013 a Torino e provincia.

© Riproduzione riservata

Foto: Photos.com

Alla ricerca del pomodoro cinese! Viaggio tra le conserve di passata e pelati esposte sugli gli scaffali del supermrecato

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cesto pomodoriIl pomodoro cinese è una minaccia sbandierata in modo strumentale da Coldiretti e da noti rappresentanti delle istituzione per dimostrare la necessità di difendere il made in Italy. In realtà le conserve vendute sugli scaffali dei supermercati sono per la stragrande maggioranza ottenute da prodotto italiano.

 

È vero che importiamo da Cina, California, Grecia e altri Paesi, bidoni da 100-200 kg di triplo concentrato di pomodoro, ma si tratta di quantitativi non così rilevanti se paragonati con la produzione di concentrato made in Italy. In ogni caso si tratta di materia prima in regola con le norme igienico-sanitarie europee, sottoposta a regolari controlli doganali che non si discosta molto dal prodotto italiano, salvo il prezzo inferiore.

 

pomodoro passata salsaMa la realtà volutamente taciuta è che il concentrato di pomodoro cinese, viene acquistato e rilavorato da una decina di aziende conserviere italiane nel periodo invernale, per produrre tubetti e vasetti destinati ai paesi africani e ad aziende europee per le bottiglie di ketchup, per i sughi pronti e altri prodotti dove il pomodoro risulta un ingrediente minore.

 

Le confezioni di pelati, le bottiglie di passata e di polpa vendute in Italia contengono il 100% di prodotto italiano, come scritto in etichetta. La raccolta del pomodoro fresco per la trasformazione è più che sufficiente a coprire la necessità delle nostre imprese che lavorano solo materia prima italiana. In media si trasformano ogni anno circa 50 milioni di tonnellate di prodotto fresco e il 60% viene esportato.

 

In questo video Roberto La Pira decodifica le etichette di passata acquistate al supermercato alla ricerca vana di pomodoro cinese.

 

 

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Tonno Rio Mare made in Thailandia: perchè non indicarlo bene in etichetta? Il parere dell’esperto ASL 1 di Torino

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filetti di tonno Rio MareL’etichetta dei filetti di tonno “lavorati a mano” ma in Thailandia, a dispetto dell’italianissimo marchio Rio Mare, continua a raccogliere commenti da parte dei lettori de Il Fatto Alimentare. L’opinione più autorevole e strutturata ci é giunta da Roberta Bervini e Claudio Biglia, dirigente veterinario, della ASL 1 di Torino nonché docente universitario. La risposta conferma i dubbi emersi da più parti.

 

Tra le informazioni in disponibilità del consumatore occorre, nel mare magnum di norme vigenti, individuare quali siano quelle previste (perché obbligatorie) per le conserve ittiche. La luce ci è fornita dal combinato disposto del reg. CEE 1536/92 (norme per la commercializzazione di conserve di tonno) e dalla circolare MIPAF 23 marzo 2005 interpretativa del reg.CE 2065/01.

 

La norma specialistica per le conserve di tonno impone “per garantire un’ampia trasparenza del mercato” che i prodotti siano preparati con pesci di specie ben definite (elencate in uno specifico allegato) e che la denominazione di vendita riporti il tipo di pesce impiegato e la tipologia di presentazione commerciale. La circolare interpretativa esclude peraltro dal campo di applicazione del reg.CEE 2065/01 i prodotti ittici totalmente trasformati, come nel caso in esame

 

riomare tracciabilitaIl quesito del lettore è composto: da un lato vorrebbe conoscere l’origine della materia prima, dall’altro chi sia il produttore della conserva ittica.

 

- In ordine al primo lecito quesito occorre rilevare che l’informazione fornita al consumatore sul punto origine è coerente. Infatti compare la nazione Thailandia,

 

- Per quanto attiene invece al secondo, le molteplici informazioni riportate sull’etichetta possono mettere in dubbio il consumatore su chi sia effettivamente il produttore (o meglio la sede di produzione).

 

tonno-riomare-filettiNon è giustificabile tale approccio neppure in lettura, per analogia, della normativa riferita alla etichettatura delle carni bovine (reg. CE 1760/02). In tale norma, allorché luogo di nascita del bovino, luogo di allevamento e luogo di macellazione coincidano è possibile indicare come unica “Origine” il nome dello Stato membro o del paese terzo. Ma si tratta di una norma specifica, riferita ad altro settore, che tra l’altro riassume in un’unica dicitura i due diversi concetti di “origine” e “provenienza”, la cui distinzione è chiarita dalla giurisprudenza italiana sull’art.515 del nostro codice penale.

 

Bene farebbe quindi la società produttrice ad integrare la propria etichetta con i due termini “origine – provenienza” che nel caso in specie, per diretta affermazione dell’ufficio stampa Bolton Alimentari, coinciderebbero geograficamente con la Thailandia.

Per tutte le altre informazioni sulla tracciabilità è soddisfacente quanto operato, in regime di trasparenza, dalla società produttrice, mediante le indicazioni estraibili dalla rete, attraverso la digitazione del codice di produzione. Ogni altra parola potrebbe ingenerare infruttuose polemiche.”

 

Claudio Biglia e Roberta Bervini, ASL 1 Torino

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Ripienotti: i nuovi ravioli “Teneroni” strizzano l’occhio ai bambini ma attenzione a sodio e grassi

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ripienotti1Ripienotti è il nome curioso dato alla pasta fresca proposta da Casa Modena di Grandi Salumifici Italiani apparsa sugli scaffali dei supermercati lo scorso settembre. La campagna pubblicitaria si è però vista solo negli ultimi tempi. Le quattro varietà di pasta ripiena fanno parte della linea I Teneroni che negli ultimi anni ha riscosso un certo successo.

Il nome del produttore è noto ai consumatori per essere un’azienda specializzata in salumi e piatti pronti come gli hamburger a base di prosciutto commercializzati con il marchio I Teneroni che adesso arricchiscono ulterioremente la gamma con i ravioli.

 

teneroniI  Ripienotti  si rivolgono soprattutto al pubblico dei bambini e la scelta della forma a disco volante è un elemento che aiuta a ricordare e a caratterizzare bene il prodotto. Le diciture in etichetta vogliono comunicare al cliente alcuni dettagli sulla qualità degli ingredienti: ad esempio “Senza aggiunta di glutammato e oli vegetali”, “ripieno pari al 60% del prodotto”.

L’assortimento comprende quattro versioni: oltre al tradizionale ricotta e spinaci, troviamo petto di pollo e patate, prosciutto cotto e mozzarella e patate, piselli e carote.

 

ripienotti2 I Ripienotti hanno il vantaggio di riportare in modo  ben visibile la lista completa degli elementi nutritivi. Osservando con attenzione si nota che trattandosi di pasta ripiena incidono un po’ troppo i grassi saturi (una porzione rappresenta il 33% delle GDA giornaliere) e anche il sodio (il 25% di quanto dovremmo consumarne).

 

Per quanto riguarda il prezzo, il listino si allinea agli altri prodotti già presenti sul mercato anche se l’attenzione da parte dei consumatori non è massima, perchè il consumo di pasta fresca  viene vissuto come un prodotto occasionale facile e veloce da preparare. Questo servizio fa un po’ scemare l’attenzione sul listino. Al di là del prezzo indicativo proposto dai produttori, nei punti vendita si possono trovare molte promozioni che spostano di volta in volta la scelta degli acquirenti da una marca ad un’altra.

 

Valeria Torazza

 

 RipienottiRicotta e spinaci Prezzo Ingredienti
Casa ModenaI Teneroniripienotti2Pasta fresca all’uovo con ripieno

Vaschetta da 250g

2 porzioni

3,19 € confezione/ 12,76 € al chilo(Carrefour Market) Ingredienti della pasta (40%): Semola di grano duro, uova (20% della sfoglia, 8% sul totale degli ingredienti), acqua. Ingredienti del ripieno (60%): ricotta (40% sul ripieno, 24% sul totale degli ingredienti – siero di latte, latte, panna, sale), fiocchi di patate, spinaci (13% sul ripieno, 8% sul totale degli ingredienti), panna fresca, formaggio fresco (latte, crema di latte, sale), Grana Padano D.O.P. (latte, sale, caglio, conservante: lisozima – proteina naturale dell’uovo), sale, burro, fibra vegetale, aromi naturali, aglio. Contiene: grano, uova, latte.

 

INFORMAZIONI NUTRIZIONALI
Valori nutrizionali medi per Per 100 g Per 125 g % GDA
Valore energetico 244 kcal/ 1027 kJ 305 15,3
Grassi g 7,5 9,4 13,4
di cui saturi g 5,2 6,5 32,5
Carboidrati g 32 40,0 14,8
di cui zuccheri g 2,5 3,1 3,5
Proteine g 10,8 13,5 27,0
Fibre alimentari g 2,6 3,3 13,0
Sodio g 0,48 0,60 25,0

 

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Foto: Photos.com, Casamodena.it

L’ovetto d’oro: Kinder GranSorpresa della Ferrero venduto a 94 euro al kg batte tutti i listini delle uova di Pasqua

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kinder-ovettoL’ovetto di Pasqua preferito dai bambini, il Kinder GranSorpresa Ferrero da 41g, venduto a 94 euro al kg rientra nella classifica dei prodotti alimentari più cari, preceduto da zafferano, tartufo e caviale.

 

Sono molti i clienti che quando lo comprano guardano solo il cartellino che indica 3,85 euro e non il prezzo al chilo che corrisponde al doppio rispetto all’ovetto classico venduto nei negozi tutto l’anno. Rispetto all’anno scorso la cifra è anche aumentata del 2,7%, passando da 3,75 a 3,85 euro. Ferrero in una lettera sostiene che il prezzo elevato è giustificato “dall’eccellente qualità delle materie prime” e “dall’unicità delle sorprese”.

 

Ecco il video del programma di Consumi&Consumi di RaiNews24, a cura di Vera Paggi in cui Roberto La Pira dà qualche suggerimento sulla scelta delle uova di Pasqua.

 

Farina Esselunga e farina Molino Chiavazza: il produttore è lo stesso e le etichette sono molto simili. Cosa scegliere?

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donna bambina farina impasto La farina è un prodotto di base e il consumatore medio che ne fa un uso esclusivamente domestico non percepisce sostanziali differenze tra una marca e l’altra. Un po’ diverso è  il discorso per l’utilizzo professionale, nel quale caso hanno maggior peso i cosiddetti “parametri analitici” (contenuto in umidità, glutine, proteine, granulometria, ecc.) e “reologici” (indici di tenacità dell’impasto ottenuto, estensibilità, forza della farina, ecc.).

 

Se prendiamo in considerazione le farine “00″ di grano tenero, ci accorgiamo che il 38% dei prodotti venduti nella grande distribuzione rientra nel gruppo  delle private label, cioè ha il marchio del supermercato.  Si tratta di un valore  elevato, probabilmente dovuto all’inapacità del consumatore  di distinguere le differenze tra un prodotto e l’altro .

 

Il fatto alimentare ha messo a confronto la farina marchiata Esselunga, prodotta nello stabilimento di Casalgrasso (CN) dall’azienda Molino Fratelli Chiavazza, e la farina venduta con il marchio Il Molino Chiavazza prodotto nella medesima azienda. A prima vista, non sembrano esserci sostanziali differenze: l’imballaggio di carta è lo stesso, i valori nutrizionali riportati sull’etichetta  sono molto simili e anche i prezzi risultano abbastanza allineati (la confezione di Esselunga costa 0,5 centesimi in meno al chilo).

 

chef farina impastoSecondo le informazioni che abbiamo ottenuto la farina di grano tenero tipo “00″  prodotta nello stabilimento di  Casalgrasso è ottenuta dalla macinazione di grani fini nazionali. Quella con il marchio Il Molino Chiavazza è definita “di media forza e quindi ha  caratteristiche di panificabilità tali da garantire un equilibrato ciclo di lavorazione” ed è adatta ai principali utilizzi professionali e domestici. Può infatti essere impiegata per preparare: pasta fresca, panature, pane, pizze e focacce che non richiedono particolari modalità di impasto o lunghi tempi di lavorazione.

La farina a marchio Esselunga – precisa la catena di supermercati – è ottenuta prevalentemente da grani italiani e francesi e può essere definita “rinforzata” rispetto a quella a marchio Chiavazza.  Il prodotto corrisponde a richieste specifiche e ha parametri reologici un po’ diversi rispetto a una farina standard. Anche sulla confezione della nostra farina sono riportati i possibili usi (adatta per pane, pizza, focacce e pasta fresca)”.

Per correttezza va detto che  Molino Chiavazza è un produttore che confeziona farine per numerose catene della grande distribuzione (gli addetti ai lavori chiamano queste aziende co-packer – vedi nota 1), e ha voluto precisare che «tutte le insegne hanno dei capitolati tecnici nei quali sono espressamente indicate le caratteristiche dei prodotti».

 

Anche se le  farine sembrano a prima vista tutte uguali,  in realtà non lo sono, perchè ogni supermercato definisce i suoi standard qualitativi. A questo punto possiamo ipotizzare delle differenze chimico-fisiche e reologiche, che però non  sono indicate in modo chiaro sulla confezione o in etichetta.  Queste diversità però dovrebbero emergere  nel corso di un’analisi di laboratorio ed essere evidenziate durante la fase di impasto, ma solo se si tratta di farina molto diverse. Esselunga  non ha voluto aiutarci a capire  quali sono le caratteristiche del suo prodotto e le diversità con la farina del Molino Chiavazza.

Probabilmente siamo di fronte a differenze poco evidenti, il valore proteico sull’etichetta risulta  identico  e i due prodotti si possono considerare abbastanza equivalenti. Il  consumatore che preprara una torta in casa difficilmente sarà in grado di valutare le diversità tra i due marchi.

 

Claudio Troiani

 

(Nota 1) Contract packer o co-packer è tecnicamente chiamata quella azienda che produce e confeziona alimenti per un cliente. Nella commercializzazione e distribuzione sul mercato di questi prodotti, il co-packer si attiene ai termini sottoscritti in un  contratto che, in questo caso, ha lo stesso potere decisionale di un produttore.

 

farina Molino ChiavazzaFarina 00 da 1 Kg, Il Molino Chiavazza

Per preparare torte, pan di spagna, pizze, focacce, pasta fresca, panature, ecc.

Valori medi per 100 g di prodotto
Proteine 9,0 g
Carboidrati 74,0 g
Grassi 1,0 g
Valore energetico 325 Kcal (1.380 Kj)
Prezzo medio a livello nazionale 0,6 €

 

 

 

Farina EsselungaFarina 00 da 1 Kg, Esselunga

Adatta per pane, pizza, focacce e pasta fresca casalinga

Valori medi per 100 g di prodotto
Proteine 9,0 g
Carboidrati 74,5 g
Grassi 0,7 g
Valore energetico 340 Kcal (1.445 Kj)
Prezzo medio a livello nazionale 0,55 € (Milano)

 

 

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Foto: Photos.com, Esselunga, Il Molino Chiavazza

Vendere il vino direttamente ai turisti europei comporta il raddoppio dei costi di spedizione. Una norma assurda da modificare

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alcolici coppe fluteSi avvicina il rendez-vous primaverile dei cultori di Bacco, il Vinitaly di Verona.  Migliaia di visitatori stranieri vengono  in Italia per conoscere le realtà produttive,  ma non potranno ordinare neppure un paio di cartoni ai viticoltori conosciuti in loco, perché quando il trasporto supera i confini nazionali raddoppiano i costi di spedizione.

 

Conoscere di persona chi produce il cibo che andrà sulle nostre tavole permette di apprezzare meglio il suo valore, comprendere una volta per tutte le stagioni e le campagne che è interesse di quasi tutti  preservare dal cemento. Ma il chilometro zero ha un limite territoriale, che non è un ossimoro ma un dato di fatto. Poiché un Friulano è friulano, non lo si trova in Campania e neppure in Provenza, al mercatino locale.

 

Per superare alcuni ostacoli c’è la vendita diretta a distanza. Basta una telefonata, un fax o una e-mail al produttore, e il consumatore può scegliere quale vino comprare, da quale produttore e in quale regione. Anche in questo modo si può stabilire una relazione di fiducia, tra la vigna e il bicchiere. Con l’ulteriore tutela offerta dalle regole varate dalla  Commissione europea per le vendite a distanza. Ma c’è un problema.

 

vino 87481359«Il problema – spiega il presidente della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (1) Costantino Charrère – riguarda il cittadino europeo che viaggiando in Italia assaggia alcuni vini e, rientrato nel proprio Paese, vuole ordinarli per uso personale direttamente al produttore. L’acquisto risulta complicato perché il vignaiolo deve appoggiarsi ad un rappresentante fiscale, con un aggravio di costi di trasporto considerevole». Per spedire 36 bottiglie di vino dal Veneto in Belgio, bisogna aggiungere ai 50 € circa per il trasporto altri 5 0 € per la burocrazia fiscale.

 

«La vendita del vino nell’UE è regolamentata dalla direttiva accise (2) – prosegue Charrère. La norma  è complessa, se un cittadino europeo compra il vino direttamente in un altro  Stato per uso personale  e lo trasporta con i suoi mezzi a casa propria deve pagare  un’accisa nello Stato in cui il vino è acquistato. Se però il vino viene spedito o trasportato  (direttamente o indirettamente) dal venditore vignaiolo, l’accisa va pagata nello stato membro di destinazione, e ciò comporta il passaggio per il rappresentante fiscale, ovvero il raddoppio delle spese».

 

vino 156721998La soluzione è dietro l’angolo, basta deciderla. La settimana dopo Pasqua, all’ordine del giorno della riunione di un apposito gruppo di lavoro Stati membri-Commissione (4), si discuterà della vendita diretta a distanza. Due sono le scelte che potrebbero essere adottate:

- fare in modo che le  vendite dirette di vino destinate ai privati cittadini all’interno dell’UE, paghino le accise nel Paese di origine,

- creare un sistema di compensazione che permetta al produttore di vino di pagare le accise dello Stato membro di destinazione, senza dover passare attraverso un rappresentante fiscale.

 

Dario Dongo

©Riproduzione riservata

Foto: Photos.com

 

(1) FIVI, Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti www.fivi.it  , membro di CEVI (‘European Confederation Winegrowers Independent’), www.cevi_eciv.eu

(2) Direttiva 2008/118/CE 16, sul regime fiscale delle accise

(3) Entro un limite di 90 litri di vino fermo, o 60 litri di vino spumante

(4) Direzione Generale TAXUD

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