Abbiamo aspettato 20 anni il Regolamento Europeo sul vino biologico, e adesso il nuovo arrivato si trova la strada occupata da molti concorrenti.
Proprio qualche giorno fa FederBio ha ribadito sulle pagine de Il Fatto Alimentare la differenza tra il vino “biologico” (certificato secondo il nuovo regolamento) e il vino “Libero” di Oscar Farinetti (legato all’iniziativa Eataly): quest’ultimo da un lato implica una riduzione dell’uso della chimica sia in vigneto che in cantina, ma dall’altro si autodisciplina, non sottostà alle regole dell’Europa, è appunto “libero” da certificazioni (e dei relativi costi aggiuntivi).
Il vino “Libero” non è il solo a competere con il biologico: ci sono anche il vino “sostenibile” (Sustainable Wine) del progetto V.I.V.A., lanciato dal Ministero dell’agricoltura, il vino del Consorzio “ViniVeri” e tanti altri ancora. Tutti in corsa per occupare mercati sempre più importanti: le stime danno il settore generale del biologico in espansione continua, con una cresciata annuale del 10-15% (secondo i dati della Commissione Europea). Si tratta di un mercato che fa gola e in cui si allena il marketing delle aziende vitivinicole.
Indipendentemente da ciò che stabiliscono i diversi disciplinari (quello ufficiale dei regolamenti europei o quelli che le diverse iniziative si sono date e s’impegnano a rispettare), tutti questi nuovi vini pubblicizzano maggiore naturalità, un più stretto legame al territorio e maggiore sostenibilità ambientale. Ma le sfumature sono importanti e fanno la differenza.
Il vino biologico ha dalla sua il fatto che, ubbidendo a regole europee, si presenta con un marchio e un messaggio universalmente chiari in tutti i mercati mondiali: il consumatore in Italia, in Germania o in Giappone sa che cosa aspettarsi da un vino biologico, prodotto secondo le regole europee. È risaputo che il disciplinare europeo fa leva soprattutto sulla limitazione d’uso delle sostanze chimiche e sull’impiego di tecniche di coltura in grado di prevenire gli attacchi parassitari, il consumo eccessivo di acqua irrigua e lo sfruttamento spinto del terreno.
Tuttavia il regolamento del biologico non dedica altrettanta attenzione ad altri aspetti, come il consumo di energia in fase di vinificazione, la riduzione dei reflui di produzione (contaminati), il riutilizzo degli scarti di lavorazione e l’ottimizzazione del packaging dal punto di vista dell’impatto ambientale.
L’attenzione a questi aspetti è sicuramente più centrale nel progetto “Sustainable Wine V.I.V.A.” ed è presente, in parte, anche nel vino di Farinetti.
Questa differenza di approccio è importante, non solo per la comunicazione al consumatore o per il marketing: molto spesso ciò che abbatte l’impatto ambientale abbatte anche i costi di produzione o di gestione della vendita e rende il vino più “sostenibile” anche per le tasche.
Basti pensare che smaltire i rifiuti per qualsiasi settore produttivo rappresenta un costo tutt’altro che irrisorio: se è possibile trasformare il rifiuto in fonte di energia o in materia prima per ulteriori lavorazioni tanto meglio. Un esempio in questo senso è l’azienda Guecello di Porcia e Brignera che ha aderito all’iniziativa del Ministero dell’Agricoltura e da tempo rappresenta un modello di ottimizzazione per l’uso delle risorse.
Che dire poi del trasporto di milioni di bottiglie verso distributori e depositi sparsi in tutto il territorio nazionale? Questo ha sicuramente un costo ambientale ed economico ben più alto di una distribuzione organizzata e gestita direttamente dal produttore via internet, senza troppi passaggi e spostamenti intermedi, come avviene nell’iniziativa di vino “Libero”.
Infine, utilizzare per l’imbottigliamento un vetro leggermente più sottile, prodotto localmente, non solo porta a ridurre l’impatto ambientale, ma abbatte anche i costi di produzione del packaging e, riducendo il peso, abbassa anche i costi del trasporto.
In conclusione, c’è un fermento “ambientale” notevole nel settore vino. E che sia per convinzione e crescita di valori o per puro marketing o, ancora, per abbattere i costi, ha meno rilevanza: non ci formalizziamo e diamo il benvenuto a questo trend che comunque contribuisce ad allargare la consapevolezza e l’attenzione al problema delle sostenibilità.
Certo, un rischio c’è ed è reale: così tante sigle, tanti marchi, tante iniziative non coordinate e scarsamente allineate rischiano di creare un bombardamento di etichette, loghi e brand tale da confondere il consumatore, disorientarlo e alla fine allontanarlo. Quindi, bene l’iniziativa volontaria dei privati, bene anche la scelta del Ministero di non imporre ulteriori regole ai produttori, come orgogliosamente rivendica il Ministro Clini, ma ogni tanto “fare squadra” a livello nazionale, lavorare e sostenere tutti insieme lo stesso progetto e lo stesso messaggio non sarebbe davvero male, per tutti.
Lorena Valdicelli
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Foto: Photos.com, V.I.V.A., Vino LIbero